The Tree of Life

di Terrence Malick (USA 2011)
con Brad Pitt, Sean Penn, Jessica Chastain,
Will Wallace, Joanna Going, Hunter McCracken,
Tye Sheridan, Crystal Mantecon, Fiona Shaw

Ok. Superiamo la polemica film lento/non lento. Andiamo oltre.
Chiediamoci piuttosto: “Cosa vuole dirci Malick con questo film?” Non lo so. Non si capisce – o almeno io non l’ho capito. Ci racconta il “suo” senso della vita. Bene. E quindi? Quale sarebbe questo “senso della vita”? Mi pare che lui lo intenda come qualcosa di molto mistico – quasi sacro – panteistico e sofferente. Una sofferenza, per altro, da accettare senza porvi la minima resistenza. Una passione da esperire necessariamente in maniera fideistica – mi verrebbe da dire quasi “ultra-cattolica”.
Il problema, comunque, non è solo “cosa” vuol dirci Malick ma anche “come” ce lo dice. Per più di 20 minuti ho davvero avuto difficoltà a capire quale fosse la premessa (o l’antefatto). Per i restanti ho continuato a chiedermi: “Dov’è la trama?” Poi mi sono anche addormentato (negli ultimi 10 minuti) ma questo non conta.
Nelle prime battute del film si vede una famiglia felice. Tanti piccoli frammenti, lentissimi, scollegati tra loro. Poi arriva la notizia di una morte, una morte che porta tanta sofferenza, quella del figlio della coppia sullo schermo: i signori O’Brien (interpretati da Brad Pitt e Jessica Chastain). Poi stacco.
A seguire partono circa 20 minuti di documentario sull’origine dell’universo, sul creato, sullo spazio integalattico profondo, sugli animali, sulla Natura, sugli elementi che compongono la Terra. Sembra di assistere a una puntata di Quark per il grande schermo. Giuro. Qualcuno in sala l’ha anche detto, sottovoce, e subito dopo è partito un ghigno, una risatina soffocata dalla vergogna di aver detto una verità che non andava detta. In questa parte di pellicola si ha la sensazione che Malick abbia voluto citare il Kubrick di “2001: Odissea nello spazio”. Volontariamente? Involontariamente? L’ha dichiarato? Mah. Chissà. Non che sia importante. La noia vince su tutto. Anche sulla terza parte, quella in cui vediamo uno dei tre figli della coppia, ormai adulto (una specie di broker che vive in una metropoli americana – New York?), affrontare con disperazione una vita frenetica, triste, solitaria, fatta di silenzi e di imbarazzi. Una vita che solo il Signore può aiutare a superare.
Voi non potete nemmeno immaginare quante volte le voci fuori campo si rivolgono disperate a Dio con la loro preghiera in cerca di conforto alle loro paure, incertezze e sofferenze.
Il racconto segue con la vita dei figli di O’Brien o meglio con quella di uno di essi in particolare (probabilmente quello che poi morirà): un ragazzino che viene vessato dalla estrema severità di suo padre e che vede sua madre sopperire all’aggressiva ignoranza di suo marito.
Che altro aggiungere? Questo film ha vinto la Palma d’oro alla 64^ edizione del Festival del Cinema di Cannes. Spero che i giurati abbiano voluto premiare solo ed esclusivamente la splendida fotografia di Emmanuel Lubezki.
Voto globare per la pellicola: è meglio non dirlo. Inqualificabile.

Nota: se la locandina Italiana dovesse sembrarvi ruffiana (con quel bel padre quarantenne che gioca con i piedini di un neonato – probabilmente suo figlio), allora guardate quella originale americana. Ve lo consiglio, perché rende bene quanto sia confusionaria l’idea alla base di questo film. Probabilmente il regista (che è anche sceneggiatore e autore del soggetto) voleva comunicare così tante cose con questa pellicola da non essere riuscito nemmmeno a scegliere una sola immagine per rappresentarla. O almeno questo è quello che mi comunica quel collage di fotogrammi.

La scheda di IMDb.com, quella di Cinematografo.it e quella di MyMovies.it.