La prima cosa bella
di Paolo Virzì (Italia, 2010)
con Valerio Mastandrea, Micaela Ramazzotti,
Stefania Sandrelli, Claudia Pandolfi, Aurora Frasca,
Marco Messeri, Dario Ballantini, Paolo Ruffini, Bruno Michelucci,
L’ultima fatica di Virzì è un bellissimo film agrodolce: il racconto della storia di una famiglia livornese tra alti e bassi, in cui momenti dolci e leggeri si alternano continuamente a situazioni profondamente drammatiche. C’era anche da commuoversi, soprattutto verso la fine. Io non ho pianto ma c’è mancato davvero poco.
Bravi tutti. Bravo il regista a raccontare una storia semplice e intensa allo stesso tempo. Bravi tutti gli attori a recitare con accento livornese, nonostante quasi nessuno fosse del posto.
Su Claudia Pandolfi sto iniziando a ricredermi. Non m’è mai piaciuta (né come attrice, né come donna). Qui, invece, recita benissimo. C’è anche una scena particolarmente vivida, attraverso cui riesce a trasmettere sensazioni forti: un primo piano fisso in cui il suo personaggio piange mentre confessa un grandissimo affetto nei confronti di suo fratello. Ebbene, per un attore/attrice passaggi come questi sono testimonianza di grande professionalità.
Mastandrea, col tempo, diventa sempre più credibile. La sua è ormai una recitazione totalmente matura. Eccellente.
Micaela Ramazzotti per me non è bellissima, non mi dice granché (non scassate, non mi frega se voi la trovate bona). Anche su di lei avevo un pregiudizio. L’avevo vista recitare solo in . Lì faceva la sciacquetta, qui anche (più o meno). Comunque se la cava davvero bene.
Stefania Sandrelli recita molto meglio della sua media personale però – permettetemi di dire – che la sua malata terminale è un po’ troppo vitale e allegrotta, per essere (appunto) moribonda.
Marco Messeri è buffo, come sempre.
Paolo Ruffini ne esce benissimo: mi ha stupito vedero nel ruolo da giovane avvocato allampanato.
Aurora Frasca e Bruno Michelucci, i due bimbi che interpretano i piccoli Bruno e Valeria, sono davvero bravissimi. Spesso rubano la scena alla madre – come è giusto che sia.
Dario Ballatini è perfettamente a suo agio nei panni del viscido avvocato.
Fabrizia Sacchi interpreta una donna ostinata e positiva, con le spalle molto larghe che ha scelto di stare al fianco di un uomo su cui molti non scommetterebbero un centesimo. Di lei non dico né bene, né male. Dico solo che per tutta la durata del film sono stato a cercare di ricordarmi il suo nome – era un volto che mi risultava troppo noto.
Bravo anche a chi ha scelto la colonna sonora: i pezzi di musica leggera italiana degli anni ’70 ti rimangono così tanto in testa che continui a cantarli anche quando esci dalla sala.
Nota: la sceneggiatura, oltre che da Paolo Virzì, è stata scritta anche da Francesco Piccolo e Francesco Bruni.
Siccome sono pigro, vi consiglio di leggere questo post di Akille dal titolo . Ha scritto praticamente tutto lui. È un’ottima analisi. Mi trova completamente d’accordo. C’è davvero poco da aggiungere.
Voto 8.
La scheda di e quella di .
andremo a vederlo grazie :)
@bacomarta: grazie a voi che leggete :)
L’ultimo film di Paolo Virzì sta raccogliendo in Italia unanime consenso di pubblico e di critica, almeno a giudicare dagli incassi e dalle recensioni della stampa e degli internauti. Né poteva essere diversamente. Già il titolo, La prima cosa bella – preso in prestito dalla omonima canzone popolare che, nell’interpretazione dell’allora esordiente Nicola Di Bari e dei Ricchi e Poveri, si classificò al 2° posto del Festival di Sanremo del ’70 – ricorda agli italiani, nati di donna, che “la prima cosa bella” che hanno ricevuto dalla vita è il “sorriso giovane” della propria madre. Del resto, la colonna sonora del film, nel canto dolce di Malika Ayane, risuona di quei versi sinceri, belli e per nulla retorici: “La prima cosa bella che ho avuto dalla vita è il tuo sorriso giovane, sei tu […]”
Appare dunque naturale che la narrazione si svolga tra il 1971 e il 2009, in un ritmo da sistole e diastole che finisce per interessare le viscere e che rimanda di continuo dal presente al passato senza soluzione di continuità e senza una vera e propria tecnica di flashback, ciò che avrebbe facilitato nello spettatore distratto dalle prime multicolori sequenze, la comprensione che non si stia parlando di due famiglie dello stesso condominio ma di un’unica famiglia rivisitata quarant’anni dopo.
La storia narrata da Virzì utilizza tutti gli strumenti utili a far risuonare le corde del cuore e della pancia, organi particolarmente sensibili negli spettatori attratti dai numerosi programmi nazional-popolari della TV, sia “classici”, tipo “Ballando sotto le stelle”(non a caso citato nel film) che vagamente “trasgressivi”, del genere “Grande fratello”. Senza voler considerare l’utilizzo dell’accento della sua terra, il livornese, che dalle labbra del sempre più accigliato e introspettivo Valerio Mastrandrea e ancor più da quelle di Claudia Pandolfi si diffonde suscitando più di una perplessità in chi ascolta.
Nondimeno, il tutto appare congegnato con mestiere e non c’è dubbio che alcuni personaggi siano convincenti, come la “madre giovane” – così solare e materna, così vittima del maschilismo di sempre – interpretata in modo più che convincente da Micaela Ramazzotti, che via via che procede la narrazione cerca sempre più di avvicinarsi alla “madre più che matura”, rappresentata da un’impeccabile Stefania Sandrelli. Anche se l’ingenuità della “prima madre” fa un po’ da contrasto con l’eccessiva arguzia e disinvoltura della seconda. E lo stesso Valerio Mastrandrea dimostra ancora una volta di trovarsi a proprio agio nei panni di un personaggio al quale non sia richiesta eccessiva mobilità espressiva, al di fuori del volto corrucciato, simbolo del disagio dell’anima (un po’ come in Giulia non esce la sera). Bravi i registi che così lo utilizzano.
Per il resto, la vicenda risente di una costruzione di maniera, con ingredienti garbatamente attinti dalla cucina popolare, con contrasti, liti e tradimenti familiari, con maldicenze di provincia e tradizionali luoghi comuni, con situazioni paradossali che dovrebbero emozionare lo spettatore, come nel matrimonio e nel trapasso consumati nella stessa giornata, a meno che non si tratti di un tributo a Jean-Jacques Roussseau che nel matrimonio vede la tomba dell’amore!
Un “polpettone”, dunque? Non proprio o non del tutto, perché alla fine la pietanza offerta appare comunque più discreta e misurata delle sostanze utilizzate.
(DAL BLOG: http://zibaldone-sergio.blogspot.com )