Nella valle di Elah
(In The Valley of Elah)
di Paul Haggis (Usa, 2007)
con Tommy Lee Jones, Charlize Theron,
James Franco, Susan Sarandon, Jonathan Tucker,
Frances Fisher, Jason Patric, Josh Brolin,
Wes Chatman, Mehcad Brooks, Victor Wolf
Non credo che questa sia una pellicola adatta per il mercato italiano. E’ vero che anche l’Italia ha avuto le sue tragedie legate alla seconda guerra del golfo, alle missioni in Iraq, ma in questo caso è differente. Con tutto il rispetto per Paul Haggis, che si è meritato due premi Oscar per le sceneggiature di “Million Dollar Baby” e “Crash – Contatto fisico”, ma ritengo che “In the Valley of Elah” sia un prodotto difficilmente esportabile. Il messaggio di fondo di tutto il film è: «Guardate quanto siamo sfortunati. Poveri noi Americani e poveri i nostri ragazzi che vanno in Iraq a portare la democrazia e tornano morti o psicologicamente distrutti». Commiserazione a tutto spiano. Una teoria di base che arriva quasi a giustificare la violenza insensata che nasce tra commilitoni reduci del Golfo. Poi intorno ci hanno imbastito tutta una storia con le indagini della polizia, come se si trattasse di un vero thriller. Così non è. Mi è sembrata una pellicola di propaganda. Le disperate indagini private del padre, lo strazio della madre che vuole per forza vedere le membra dilaniate di suo figlio, e la bandiera dritta, e la bandiera capovolta, e la bandiera vecchia, e la bandiera stracciata… Tutto molto stucchevole. Non se ne può più. Già la locandina avrebbe dovuto mettermi sul ‘chi va là’.
Bisogna sperare che la guerra in Iraq termini al più presto, sia perché così si porrà fine alle vittime, ai feriti, alle efferatezze, alla violenza, ai sopprusi, ma anche perché così la smetteranno di propinarci film legati a questo tema. Che poi, pensateci, una pellicola così secondo me è anche più subdola. Non si critica direttamente la guerra o le ingannevoli motivazioni che l’hanno fatta iniziare, ma si punta il dito verso i cosiddetti effetti collaterali. I danni psicolgici ai ‘poveri’ soldati che vi prendono parte. Sarà! Ma io ho difficoltà ad avere pietà per uno che – di sua spontanea volontà – si mette una divisa, imbraccia un fucile e va in guerra.
Da qualche parte devo anche aver letto che Haggis è un antimilitarista… Sinceramente: non è una teoria che mi convince poi tanto. Dov’è che Haggis attacca le strutture militari? A parte un po’ di ostruzionismo nei confronti delle indagini della Polizia e un po’ di cameratismo oscurantista, non ho visto questo grande attacco all’amministrazione Americana attuale e agli alti ranghi militari. Forse Haggis è uno ormai troppo famoso ed integrato nel sistema Hollywood per alzare la voce contro i potenti d’America.
Se poi ci stacchiamo dal messaggio recondito e ci concentriamo sugli attori e la loro recitazione devo ammettere che Tommy Lee Jones, Susan Sarandon e Charlize Theron sono da applausi.
Il primo è un padre sanguigno, un ex militare, un veterano tutto ordine e disciplina, che ha costretto i suoi due figli ad arruolarsi per farli sentire dei veri uomini e che se li vede morire entrambi in uniforme, mentre servono la Patria tanto amata.
La seconda è una madre dal cuore infranto, più che distrutta. Una che però, nel momento della morte del suo secondo figlio, ha la forza di alzare la voce e rinfacciare al marito che se non avessero intrapreso la carriera militare forse i loro figli sarebbero ancora vivi.
La terza è una poliziotta tosta, che deve sgomitare per farsi rispettare dai colleghi maschi che imputano la sua brillante carriera al fascino che esercita sugli uomini. Insinuazioni pretestuose, anche perché questo è uno dei pochi film in cui la Theron non è stata presa per la sua bellezza. In molte scene tutto è tranne che femminile.
Buoni cammei, seppur piccoli, anche per James Franco (il New Goblin della saga “Spider-Man”) nei panni di un giovane sergente e per Josh Brolin, ancora una volta nella parte del poliziotto (vedi “American Gangster”).
Questo film uscirà nelle sale cinematografiche italiane venerdì prossimo, 30 Novembre, distribuito dalla Mikado.
La scheda di Cinematografo.it e quella di MyMovies.it.
Qui il mirror post su ScreenWeek Weblog.
Non sono daccordo con il discorso su Haggis antimilitarista o meno.
Trovo che uno dei suoi pregi maggiori sia disegnare storie e figure ambigue, che pur se divise tra bene e male spesso non hanno molta scelta, o compiono scelte molto difficili che determinano quello che sono ma per le quali è difficile giudicarli.
Nello specifico (per fare un esempio) il tema centrale del film, l’incidente con il bambino del figlio di Tommy Lee Jones è il classico evento imponderabile nel quale forse tutti avrebbero agito nella stessa maniera.
Si. Nell’incidente forse in molti si sarebbero comportati così.
Il mio discorso su Haggis nasce dal fatto che in giro ho visto molti ‘salamelecchi’ per questo regista, per il solo fatto che accenna ad una polemica con il militarismo americano dei nostri giorni. Accenna. Non critica. Mostra solo qualche piccolo accenno a situazioni lievemente disdicevoli.
Ripeto: a me non convince. Secondo me il regista è davvero troppo integrato nel sistema per poterne fare una critica seria e convicente. “In the valley fo Elah” ne è un esempio. Questo film sembra dire “E’ il sistema che fa li errori, che sbaglia, che mette noi poveri americani nella condizione di sbagliare”. E’ come se ci fosse qualcosa di più grande che annulla completamente il libero arbitrio e perciò permette di giustificare ogni azione, anche la più sbagliata. Non mi piace questo ‘giustificazionismo’ che cancella ogni responsabilità del singolo. D’altronde chi appende le bandiere alle finestre non sono io.
Questo scritto è completamente fuori bersaglio: è adatto a ogni mercato occidentale, innanzi tutto, e la tesi interpretativa dell’autore del post:
“«Guardate quanto siamo sfortunati. Poveri noi Americani e poveri i nostri ragazzi che vanno in Iraq a portare la democrazia e tornano morti o psicologicamente distrutti». Commiserazione a tutto spiano.”
è del tutto ingiustificabile, frutto di una “lettura” del film fuorviante.
Il film comunica tutt’altro. Solo all’inizio Tommy Lee Jones, ex marine, tipico americano medio patriota e patriottardo che fa raddrizzare le bandiere a stelle e strisce, dice che suo figlio è andato ad esportare la democrazia: questo è il sentire comune dell’americano medio, appunto, dell’american’s way of thinking. E che racconta il film?
Racconta una storia in cui si capisce che in Iraq i soldati americani, poveri ingenui, non han esportato nulla di buono, ma hanno ucciso bambini e torturato i nemici, e ne sono tornati disumanizzati. Non c’è nessuna retorica del tipo: “poveri noi americani, che ci tocca fare ‘sto sporco lavoro di esportare la democrazia anche se facciamo diventare pazzi i nostri figli.”
C’è solo tanta tristezza nel considerare come la guerra, dalla seconda in poi, sia diventata sempre più un crimine contro l’umanità, non uno scontro tra eserciti, con regole cavalleresche. E infatti Tommy Lee Jones (che narra al bambino le regole con cui avviene lo scontro tra Davide e Golia) capisce che ogni regola è stata infranta con la guerra in Iraq. Avevamo visto già in Platoon di Stone i soldati americani uccidere e torturare a freddo i civili e uccidersi tra loro se nemici: in questo film abbiamo un’ulteriore passo avanti, infatti non rimangono neanche più il cameratismo e l’amicizia tra soldati a salvarsi, si uccide come niente fosse, quasi senza accorgersi, il migliore amico sotto le armi con un coltello, lo si fa a pezzi e brucia ma lo si lascia sul prato perchè il richianmo di un bel chicken all’una di notte è più appetitoso.
E la bandiera americana va capovolta e fissata in modo perenne: il declino irreversibile di una nazione che crede di esportare la civiltà e non si rende conto di aver bisogno di aiuto.
Certo. Anche questa è un’interpretazione.
Critica fuori bersaglio. Haggis non è un regista e purtoppo si vede ma il film non è retorico. La guerra si critica eccome se si fa vedere ragazzi di sani principi che giocano a torturare i prigionieri nfilando le dita nelle ferite. La colpa è dll’America come di chiunque altro, è di un bacchettone con i paraocchi come il padre che è pronto a dare la colpa della morte del figlio ad uno sporco messicano.
Lo ammetto: posso anche aver sbagliato l’interpretazione del film.
Regista è chi gira un film. Se giri anche un solo film sei regista.
La critica alla guerra che ho visto (se di critica si può parlare) era a mio avviso troppo blanda per poter essere credibile. E poi, comunque, secondo me, l’intento era quello di porre maggiore attenzione sull’aspetto del dolore e della commiserazione.