300

300

di Zack Snyder (USA, 2007)
con
Gerard Butler, Lena Headey, David Wenham,
Dominic West, Vincent Regan, Michael Fassbender,
Tom Wisdom, Andrew Pleavin, Andrew Tiernan, Rodrigo Santoro

L’unico metro di giudizio per giudicare questo film è l’aderenza alla graphic novel di Frank Miller. Io questo albo non l’ho letto. L’ho solo sfogliato e credo che il prodotto di Snyder sia quanto più possibile vicino alle tavole del fumetto. Potete anche giudicare da voi, guardando questo post editato dal mio capo – Brad – su ScreenWeek Weblog. Punto. Tutto il resto sono scemenze.
Gerard Butler ha bel grugno per cui credo che farà una grande carriera ad Hollywood. Stesso dicasi per Lena Headey. Non ha il grugno. Anzi. E’ molto bella ed affascinante. Durante una scena l’espressione del suo volto mi ha ricordato quella della Sharon Stone dei bei tempi. Un augurio anche per lei: che possa recitare ancora in tanti bei film.
Potrei dirvi anche altro. Ma non lo faccio. 
Piuttosto lascio che lo scriva qui sotto il mio amico Flavio "MM3" che, per questa volta (la sola?), delizia le colonne dello smeerchblog con un pensiero sul film in questione.
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Missione compiuta, mio Re. 300 riesce in pieno a rendere evidente la nostra sete innegabile di mitologie, di epica, di nuove forme di immaginario che ci facciano scattare dalla poltrona del cinema, con la stessa foga dei soldati sullo schermo. In parte, quasi come il fumetto di Miller, il film di Snyder prova a dare risposta a questa sete e lo fa con successo: quando gli eserciti si scontrano ci si sente davvero incastrati tra gli scudi. Ma, allo stesso tempo, l’azione ha luogo in un panorama estetico in cui la stilizzazione è massima e la distanza dal verosimile si misura in chilometri. La forza del cinema di Zack Snyder sta tutta in questo paradosso, che è sempre proprio opere più misteriose e potenti: in questo caso il perfetto equilibrio tra le linee pure del vasellame greco (modello ricorrente, anche nei colori) e la più assoluta barbarie romantica. Stretta in questa sottile intercapedine sta la potenza di 300, dell’art nouveau, così come del fascismo e del nazismo, che si servivano in modo geniale dell’esplosione ultramoderna e contemporanea delle forme stilizzate prodotte dalle avanguardie novecentesche per un progetto estetico dall’anima squisitamente medievale. Non so se ricordate
quella bellissima pubblicità della Nike nell’anno dello scudetto della Roma, che qui nella capitale infiammò i cuori.

E veniamo così a tutti i problemi che un’opera ambigua come questa solleva. Un’opera che gioca la sua forza proprio su tale ambiguità. Come il fumetto di Miller, 300 è un film fascista. Non bisogna avere paura di dirlo, abbiamo avuto un secolo per capire (ed apprezzare sinceramente, io per primo) l’estetica dei totalitarismi. Ho letto molte recensioni italiane che, in modo piuttosto tortuoso, cercano di schivare la questione, di evitare accuratamente tutte le riflessioni sulle implicazioni filosofico-politiche che il film pone (non siamo più negli anni ’70 e in Italia c’è questa premura un po’ goffa del doverlo per forza dimostrare), spesso rifugiandosi nella noiosissima polemica sull’accuratezza della ricostruzione storica. Proprio per questo in America invece certi timori non si hanno, leggi ad esempio il New York Times, che magari esagera pure.

L’assenza pressoché totale di qualsiasi forma di humour (imbarazzante, a tratti), l’esaltazione del sacrificio e della bella morte, la semplice equazione bello=giusto e brutto=sbagliato (il gobbo è ovviamente cattivo), danno a questo film un vago sentore mortifero, di resa felice all’inevitabile, come Von Paulus a Stalingrado. E non solo metaforicamente: le montagne di cadaveri sono onnipresenti (ma non puzzano, ovvio, perché la morte è bella).

Eppure i cadaveri puzzano, e lo sappiamo bene.

Allo stesso modo, nella logica spiccia di Frank Miller, la libertà dei frocetti ateniesi (dell’occidente, di noi tutti che non combattiamo e che la democrazia la pratichiamo ogni giorno), è dovuta a corpi militari d’elite che vegliano sul nostro sonno e che, proprio per questo, possono disporre di un diritto di superiorità e di fottersene delle regole che difendono (che è la base stessa del fascismo). Ecco, non so se ricordate il discorso di Jack Nicholson in “Codice d’onore”.

Per tornare dove eravamo partiti: non ricordo chi disse “i popoli inconsciamente scelgono i loro governanti in base all’attitudine che questi ultimi hanno nel sacrificarli”. Vorrei che questa massima un po’ apocalittica non si applichi necessariamente anche alla produzione dell’immaginario. Che fossimo in grado di usare le infinite possibilità della nostra immaginazione per modellare anche mitologie generative. Di essere in grado di esaltarci allo stesso modo per esse, così come facciamo per l’epica legata alla lotta, alla contrapposizione, che ci porta (io per primo) a corteggiare la bellezza solo quando ci implora tra le braccia della morte.
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La scheda di Cinematografo.it e quella di MyMovies.it.