Il caso YouTube e affini
(Nicola Bruno – Ottobre 2006)
Da qualche mese a questa parte almeno un paio di volte alla settimana ti arriva un’email di un amico che ti dice una cosa simile a “Guarda cosa ho scoperto su YouTube”. Un tempo i contatti nella tua rubrica erano capaci di inviarti anche file da 5 MB, roba che tu ci mettevi mezz’ora per scaricarli col tuo modem a 56K. Adesso per fortuna il linguaggio da posta elettronica si sta evolvendo verso qualcosa tipo: due righe più link in calce.
Che i vostri amici si siano aggiornati o no, sappiate che YouTube è un servizio online che permette a chiunque, gratuitamente ma previa registrazione, di mettere un video online. Risultato: un filmato dotato di un permalink, cioè di indirizzo URL fisso. Allo stesso modo chiunque, senza nemmeno registrarsi o fare un log-in, è in grado di vedere tali clip uploadati – permettetemi quest’obbrobrio neolinguistico da geek.
I clip che si trovano su questo sito, ormai tra i più visitati al mondo, sono molteplici; si va dal filmino della comunione del pargolo ripreso con la mini videocamera, agli stralci di trasmissioni televisive di grande successo – o underground – dai video amatoriali di performance live, registrate dagli spettatori di un concerto, alle puntate intere di cartoon made in USA non reperibili sulla nostre tv nazionali. Superfluo aggiungere che inoltre YouTube è la patria del videoclip musicale, sia esso nuovo o storico, pop o di nicchia. Una grande music television online 24 su 24 a disposizione di tutti. Sempre. On demand.
La durata di un clip non va mai oltre gli 8, massimo 10, minuti. Le eccezioni sono rare. Un consumo dunque in stile ‘mordi e fuggi’, molto in linea cioè con la classica fruizione che si fa delle pagine web. Come a dire che se non c’è un testo lungo o, peggio, non c’è nulla da vedere si passa subito oltre, verso website dall’appealing maggiore. La filosofia sarebbe: più mi intrattieni più resto sulle tue pagine.
I numeri di YouTube fanno spavento: due giovani fondatori – 28 e 29 anni – ex impiegati di PayPal (gruppo Yahoo!). 20 milioni di utenti unici al mese e appena 60 impiegati.
Le ragioni di tale successo possono essere ovviamente molteplici. Mi permetto di segnalarne alcune, le più evidenti. Ma qui il dibattito è ovviamente aperto. Punto primo: la gratuità del tutto; mai dimenticarsi quale possa essere la forza attrattiva di qualcosa, persino quando il bisogno non esisteva precedentemente alla sua soddisfazione. Punto secondo: giro un piccolo videoclip, lo carico su di un server che mi dà banda e spazio a volontà, prendo il permalink o il codice ‘Embed’ e lo inserisco sul mio blog. Laddove per ‘Embed’ si intende una breve linea di codice html da copiare ed incollare nella propria pagina. Tutto qui. Niente di più semplice.
Detto così sembra poco. Ma vi assicuro che non lo è, soptattutto se si tiene conto che molti blogger non hanno un dominio di primo livello, né un sito personale. Il più delle volte si appoggiano a piattaforme di proprietà altrui, sottoscrivendo la versione base – a costo zero – del servizio. Il che significa dominio di secondo livello (tipo xxx.piattaformablog.com) e nessuno spazio libero sui cui salvare i propri file, siano essi, immagini, documenti testuali, brani musicali o – appunto – video. Non stupisca dunque il fatto che siti simil-YouTube nascano come funghi, cioè che tutta una serie di servizi senza costo alcuno appaiano sul mercato per andare a colmare lacune di questo tipo. Perché in fondo è di questo che si tratta: la soddisfazione di un bisogno presente ma latente, che nessuno cioè aveva saputo leggere tra le righe. Fino ad ora. Una volta emersa l’esigenza dell’utente ecco che i servizi atti ad appagare questa necessità sbocciano sul mare magnum di Internet.
Si veda in proposito Google Video per i videoclip, Imageshack.us per le foto e le immagini di qualsiasi tipo, YourFileHost.com e Depositfiles.com per dati generici ma soprattutto per brani in formato mp3. Tra l’altro proprio le tracce audio spesso vengono censurate d’ufficio da diversi servizi di web-hosting in qualità di estensione ‘off limits’ poiché potrebbero essere motivo di problemi legali. I detentori del diritto di copia potrebbero lamentarsi e ricorrere alle vie legali.
Ed ecco che qui che subentra uno dei problemi più grandi per un sito di successo come YouTube. Come rimediare a quella valanga di debiti, da cui sarà sommersa ancora per diversi anni? Ne scriveva recentemente Brad Stone su Newsweek. La messa in condivisione di videclip – il termine tecnico sarebbe ‘video-sharing’ – è forse la più importante innovazione dai tempi di Google. Alcuni analisti valutavano YouTube circa 2 miliardi di dollari. Poi qualche giorno fa Page e Brin (leggi Google) hanno comprato il sito per 1,65 milioni, affibiandogli definitivamente un valore di mercato. Tutto oro che cola? Forse. Fatto sta che la società inizia a mostrare delle crepe. Basti pensare alle diverse cause pendenti in cui la si accusa di violare palesemente il diritto d’autore su molti dei filmati presenti sui propri server. Fatta l’acquisizione adesso ci si chiede: quale sarà il modello di business? Basterà l’inserimento del sistema Google AdWords sulle sue pagine per portare i conti in attivo? O le fini menti di Mountain View escogiteranno qualche nuovo espediente per battere cassa?
Sinceramente non so se per il tipo di siti sopraccitati si possa parlare di Web 2.0. Il servizio potrebbe essere ancora troppo acerbo; necessita maturazione. Così come il pubblico di riferimento non ha forse ancora raggiunto una massa critica per passare dalla fase 1 alla 2. Ad ogni modo, il fatto che un utente possa (in realtà debba) registrarsi e quindi avere un suo nick, una serie di clip preferiti, una lista ‘storico’, ecc., rappresenta una buona base di partenza per una community vera e propria. E la storia del web insegna che comunità significa fidelizzazione sia al servizio che al marchio.
Suonerà strano ma le major del disco, gli studios cinematografici, i network televisivi e tutti quelli che avrebbero da reclamare per l’utilizzo sconsiderato che si fa su YouTube di materiale protetto da copyright l’hanno presa bene. O almeno uno di loro. Forse gli altri stanno solo aspettando il cadavere sulla riva del fiume. Tant’è che l’executive per le strategie digitali della Warner Bros., tale Alex Zubillaga, abbia mostrato una certa simpatia durante la sua visita al quartier generale dell’azienda nella Silicon Valley. È stato siglato infatti un accordo tra YouTube e la Warner Music con cui la giovane azienda si impegna a cancellare dai propri server qualsiasi file risulti indigesto alla super etichetta discografica. Google Video, invece, conscia sin dal principio di quali potessero essere i problemi legali derivanti da un servizio online del genere, siglò in partenza e preventivamente degli accordi con i network televisivi. Avendo scelto però la strada dei soli video autorizzati dalle major, si è trovata subito dietro, a rincorrere il suo diretto avversario. Chi invece ha lasciato che il servizio si sviluppasse a briglia sciolta può ora primeggiare e godersi il vantaggio accumulato, peraltro in pochissimi mesi. Ecco spiegato un altro dei motivi che hanno portato all’acquisizione milionaria.
I problemi per YouTube comunque sono ancora di là da venire. Per poter dormire sonni tranquilli deve riuscire ad accordarsi nel più breve tempo possibile con gli altri player sulla scena del diritto d’autore, vale a dire scendere a patti almeno con le altre 3 major del disco, compresa la più grande di esse, la Vivendi Universal Music Group. Non solo. Il servizio, per quanto sia popolare, non può vantare una eguale solidità aziendale. Fornire banda e spazio a decine di milioni di utenti costa un bel po’. Per cui un’altra impellente priorità è costituta dal trovare un sistema di ricavi che sostenga la baracca dal punto di vista economico. Ossia il modello di business di cui sopra. Quando qualche settimana fa si facevano i nomi dei possibili big-spender interessati all’acquisto di YouTube, gli analisti inserivano tra i candidati, a parte Google, Yahoo! e Microsoft, anche News Corp. Alcuni cercavano il paragone tra questa operazione e quella che la corazzata editoriale capitanata da Murdoch ha messo a segno comprando MySpace. Si stima che entro tre anni il grande sito-community comprato a ‘soli’ 580 milioni di dollari potrebbe valere nientemeno che 15 miliardi di dollari. Riuscirà Google in un exploit simile?