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Steve Jobs

15 Agosto 2016 15:00 / Leave a Comment / Smeerch

Steve Jobs

Steve Jobs
di Danny Boyle (USA, 2015)
con Michael Fassbender, Kate Winslet, Jeff Daniels,
Seth Rogers, Michael Stuhlbarg, Katherine Waterston, Adam Shapiro,
Adam Shapiro, John Ortiz, Sarah Snook, Stan Roth, John Steen, John Ortiz,
Perla Haney-Jardine, Ripley Sobo, Makenzie Moss

Premessa. Steve Jobs fu il fondatore, nonché CEO di Apple. Un uomo tuttora venerato da decine di migliaia di techie, startuppari, nerd, imprenditori, futuristi, modernisti, positivisti e progressisti. O da gente che si dichiara tale. C’è praticamente una religione intorno a quest’uomo, ormai negarlo è ridicolo.

Che questo film sia stato scritto da Aaron Sorkin lo si capisce subito. È tutto basato su dialoghi, dialoghi fittissimi che accompagnano ogni scena, le classiche dinamiche di botta e risposta che sono state un può il tratto distintivo della (meravigliosa) serie tv “The Newsroom”. Sembra che chi partecipa a queste discussioni a due sia sempre una persona colta – anzi coltissima – con un’alta padronanza di linguaggio, che fa uso di metafore, che ha sempre la risposta pronta. L’universo dei personaggi di Sorkin è questo – ormai lo sappiamo.
“Steve Jobs” è sostanzialmente un film di parola, potrebbe essere anche stato scritto per il teatro, ha proprio la struttura dello script per una piece da recitare sulle delle assi di un palcoscenico. Tre macro atti in cui la parola domina su tutto.
Il regista è lo stesso di “The Millionaire”, “Trainspotting”, “Piccoli omicidi tra amici”, “Una vita esagerata”, ecc. Dunque c’è da andare sul sicuro con una coppia del genere.
Boyle e Sorkin non ci raccontano tutta la vita di Jobs ma ci mostrano tre momenti salienti del suo percorso professionale, più precisamente i (lunghi) minuti precedenti a quelle che sono state forse le tre sue più importanti presentazioni: il Macintosh, il Next e l’iMac.
Elemento fondamentale della narrazione è l’opinione che gli altri hanno di Jobs; si parla continuamente di giornalisti, della stampa, di interviste, di magazine, di quale impressione possa aver fatto una determinata scelta o un determinato comportamento. Se è vero che, ovviamente, per costruire un film del genere gli autori si sono dovuti basare principalmente su contenuti di questo tipo (interviste, articoli, biografie), è anche vero che una storia strutturata in questo modo può finire per dare l’idea che il sistema mediale sia stata una variabile fondamentale per l’esistenza di questa persona. E invece lo stesso film afferma il contrario. Chi racconta ci vuole far credere che a Jobs non importava nulla dell’opinione altrui. Non gli importava – pare – di risultare simpatico o empatico. Andava avanti per la sua strada, convinto delle sue idee, anche a patto di apparire stronzo. Lo dicono pure esplicitamente. Ma, in tutta onesta, come si fa a crederlo?

Di buono c’è che questo film non è una vera e propria agiografia di Jobs, il protagonista viene ritratto in maniera non del tutto positiva. Anzi, l’elemento principale sembra essere proprio il suo caratteraccio. Ad emergere sono principalmente le difficoltà nei rapporti con gli altri, ad iniziare da sua figlia Lisa, per continuare con il suo socio della prima ora (Wozniak), con l’amministratore delegato che rubò alla Pepsi (John Sculley), con la madre di Lisa (Chrisann Brennan), con il programmatore Andy Hertzfeld, con la sua assistente Joanna Hoffman, eccetera.
A me però è venuto un sospetto, ho il dubbio che questo focalizzarsi sugli aspetti negativi della personalità di quest’uomo, sia il modo di far emergere surrettiziamente l’aspetto umano del genio, come a dire che questo grande inventore, questo grande creativo, questo grande imprenditore, questa volpe del marketing, questa mente illuminata non è da considerarsi di matrice divina o extraterrestre, ma una persona semplice, come tutti noi.

A Michael Fassbender non si può proprio dire nulla. Recita in maniera eccellente, pulita, non sbaglia nulla. Forse nell’aspetto non è proprio identico a Jobs, ma che importa? Il compito non era ha fatto dei più semplici, interpretare un Messia è sempre pericolosissimo, eppure è riuscito ad eseguirlo in maniera più che dignitosa.
Misuratissima anche Kate Winslet nella parte di Joanna Hoffman, l’assistente personale di Jobs, la persona che più gli sta vicino in tutti quegli anni, quella che cerca sempre di portarlo su vie meno impervie. C’è un’unica scena in cui va un po’ sopra le righe, ma è certamente il copione che gli è lo richiede, per cui mi sembra più che giustificata.
Michael Stuhlbarg l’ho trovato fantastico nei panni del nerd cicciottello. Ha poche scene ma se l’è giocata decisamente bene. Interpreta Andy Hertzfeld, uno degli ingegneri che seguirono Jobs in praticamente tutte le sue avventure professionali, il tizio che – pare – arrivò persino a sostituirlo come figura paterna nei confronti di Lisa.
Jeff Daniels (lo ricordate in “Scemo e più scemo” con Jim Carey?) interpreta l’amministratore delegato di Apple che ebbe l’infausto compito di cacciare via Jobs a causa delle scarse vendite del Macintosh; il rapporto tra i due era di grande stima reciproca, ciononostante ebbero momenti di forte scontro sulla gestione dell’azienda. Daniels era il protagonista di “The Newsroom”. Dobbiamo pensare che Sorkin se lo sia portato dietro o in qualche modo abbia preteso la sua presenza nel cast?
Seth Rogen è magnifico. Lo trovo delizioso sin dai tempi di “Molto incinta”. Riesce ad essere simpatico sempre e comunque; qui riveste il ruolo di Steve Wozniak (ai più noto come Woz): l’uomo che fondò la Apple nel famoso garage insieme a Jobs nel 1976.
Il mio sincero apprezzamento va anche a Perla Haney-Jardine, Ripley Sobo e Makenzie Moss, ossia alle tre attrici che hanno interpretato la figlia di Jobs nelle varie fasi della sua vita.
Molto brava anche Katherine Waterston nei panni di Chrisann, la madre di Lisa. Tiene bene nelle scene drammatiche, quelle in cui litiga con Jobs sulle responsabilità che un padre deve assumersi nei confronti dei figli e sulle questioni meramente economiche nel sostentamento della prole.

Occhio alla canzone finale che chiude il film: una ballata che puzza di buonismo Coldplayano.

Se volete capire cosa c’è di vero in questo film e quanto invece è romanzato, vi consiglio la lettura di questo articolo scritto da Matteo Bordone per Internazionale.

La scheda di IMDb.com, quella di Wikipedia, quella di Cinematografo.it e quella di MyMovies.it.

Posted in: film / Tagged: Adam Shapiro, biopic, cast, cinema, Danny Boyle, film, Jeff Daniels, John Ortiz, John Steen, Kate Winslet, Katherine Waterston, Makenzie Moss, Michael Fassbender, Michael Stuhlbarg, pellicola, Perla Haney-Jardine, recensione, regia, regista, Ripley Sobo, Sarah Snook, scheda, Seth Rogers, Stan Roth, Steve Jobs

Looper – In fuga dal passato

8 Luglio 2013 11:51 / Leave a Comment / Smeerch

Looper

Looper – In fuga dal passato
(Looper)

di Rian Johnson (USA, 2012)
con Joseph Gordon-Levitt, Bruce Willis, Emily Blunt,
Paul Dano, Jeff Daniels, Piper Perabo, Pierce Gagnon,
Frank Brennan, Nick Gomez, Adam Boyer, Garret Dillahunt

Secondo voi è credibile che Bruce Willis e Joseph Gordon-Levitt siano la stessa persona? L’uno può essere la versione anziana dell’altro? Si somigliano? Non importa. Più che criticare le scelte di casting è interessante analizzare il film dal punto di vista della storia, che ha alcuni punti in contatto con la saga di “Terminator”.
Joe (Gordon-Levitt) è un giovane killer specializzato nell’eliminare personaggi scomodi che arrivano dal futuro, dei tizi condannati a morte per aver creato dei problemi a una specie di super mafia che detta legge in un epoca successiva al presente (30 anni circa). Non è il solo a fare questi mestiere. Altri, come lui, sono killer professionisti che agiscono nel presente per la malavita del futuro. Li chiamano loopers. Siamo nel Kansas (USA), 2044. I viaggi del tempo, seppur ormai fuorilegge, esistono e vengono usati quasi esclusivamente per questo scopo.
Per Joe le cose sembrano andare bene. Anzi, benissimo: in pochi anni è riuscito ad accumulare una grossa fortuna sotto forma di lingotti di argento (segretamente custoditi in una cassaforte nascosta sotto il pavimento). I problemi però arrivano un giorno, quando Seth – un suo collega, nonché amico – fallisce la sua missione più importante: chiudere il loop temporale, ossia assassinare il se stesso venuto dal futuro. L’organizzazione che gestisce i killer si rivolge a Joe per rintracciare Seth e fargli quindi pagare il prezzo del fallimento. Joe ha paura ed è troppo legato al gruzzolo accumulato per cui tradisce l’amico, lascia cioè che l’organizzazione lo rintracci e si vendichi, ma inizia a vivere con il rimorso di questo tradimento. Per di più poco tempo dopo tocca a lui chiudere il loop.
Dal futuro un giorno arriva il se stesso sotto forma di Bruce Willis e riesce a sopravvivere. Joe manca cioè il suo obiettivo, creando un bel casino dal punto di vista della linea degli eventi. Il futuro si scombussola e così la vita del protagonista. Per cercare di farsi perdonare dall’organizzazione per cui lavora si mette sulle tracce del suo doppio anziano in fuga, mentre questi inizia a cercare il bambino che un giorno diventerà “Lo sciamano”, ossia il super capo cruento dell’organizzazione criminale che nel futuro sta creando il caos e che ha determinato anche la sua condanna a morte (attraverso rapina e spedizione nel passato).

Il film, a mio avviso, sarebbe potuto terminare qui, con la caccia all’uomo. Una originale sfida del giovane protagonista contro il se stesso più anziano. Un faccia a faccia tra due età della stessa persona, una lotta per la sopravvivenza dell’ego futuro contro le urgenze e le necessità contingenti dell’io presente. Invece no. La storia assume ridicole sfumature soprannaturali, incentrate su una specie di telecinesi e appena accennate nelle prime battute della pellicola. Una ragazza madre e il suo piccolino si trasformano nel fulcro dell racconto: entità che il protagonista deve protegge e salvare dalla furia assassina del se stesso venuto dal futuro.

Riassumendo: un grosso MAH. Le premesse sono ottime: originali e interessanti, ma – ahinoi – si perdono dietro il tentativo di costruire un finale valido. Non per far spoiler, ma per di più qualcosa di incredibilmente simile si è già visto ne “L’avvocato del diavolo”.

Gordon-Levitt non è forse il massimo come spietato killer. Quella specie di fucilone a tubo cilindrico con cui se ne va in giro non gli dona. Ha una faccia troppo buona per l’assassino senza scrupoli che dovrebbe rappresentare. Come fighetto che si gode il denaro accumulato con gli ammazzamenti, invece, fa sempre la sua bella figura.
Bruce Willis è fuori discussione. Dove lo metti sta. Buono sia come marito disperato per la perdita della consorte, che come killer che uccide bambini controvoglia.
La bionda Emily Blunt è una scelta discutibile. Un po’ troppo frizzantina per il ruolo di madre premurosa e spaventata. Bella, certo, brava, anche, ma non mi pare del tutto in parte.
Ottima performance invece per Pierce Gagnon: recita incredibilmente bene la parte di un bimbo intelligentissimo dalle straordinarie doti.
Altro dubbio: perché prendere Jeff Daniels per il ruolo del capo dell’organizzazione che gestisce i looper nel presente? Non rende come capo mafia. Non ha lae sembianze del malavitoso spietato. Proprio no.

Voto globale: 6 meno meno. Appena sufficiente. Il film prova ad essere un’originale opera sci-fi, ma si arena abbastanza presto dietro quesiti etici ed ingiustificati poteri extrasensoriali.

La locandina americana è meglio di quella italiana.

La scheda di IMDb.com, quella di Cinematografo.it e quella di MyMovies.it.

Posted in: film / Tagged: Adam Boyer, Bruce Willis, Emily Blunt, Frank Brennan, Garret Dillahunt, In fuga dal passato, Jeff Daniels, Joseph Gordon-Levitt, Looper, Nick Gomez, Paul Dano, Pierce Gagnon, Piper Perabo, Rian Johnson

American Life

23 Giugno 2011 23:23 / Leave a Comment / Smeerch

American Life
(Away We Go)

di Sam Mendes (USA, 2009)
con John Krasinski, Maya Rudolph, Maggie Gyllenhaal,
Carmen Ejogo, Catherine O’Hara, Jeff Daniels,
Allison Janney, Jim Gaffigan, Samantha Pryor,
Conor Carroll, Josh Hamilton, Bailey Harkins

Allora, innanzitutto lasciate perdere il titolo italiano. Non curatevene. Quello originale, “Away We Go”, ha molto più senso, è più indicato.
Questa pellicola racconta di due ragazzi americani poco più che trentenni. Un lui e una lei che si vogliono molto bene, si amano. Lei fa l’illustratrice per delle pubblicazioni di anatomia, lui lavora nel campo delle assicurazioni. Non sono molto abbienti, vivono in una casa senza riscaldamento e con il cartone al posto dei vetri delle finestre. Si sentono un po’ frustrati, troppo poco maturi per mettere su una famiglia vera e propria. Aspettano un bambino ma si sentono dei falliti – lei specialmente. Quando scoprono che i genitori di lui – su cui facevano affidamento per la gestione del bambina in arrivo – si trasferiranno in Belgio (ad Anversa), decidono di fare un lungo viaggio, di spostarsi, di trovare un posto migliore dove andare a vivere, o meglio dove iniziare da zero. Così passano per diverse città degli Stati Uniti (e una del Canada) con la scusa di andare a trovare degli amici, dei familiari, dei parenti (sorelle, fratelli, quasi-cugine) e scoprono pian piano di essere decisamente meglio, o comunque più normali, di tutta una serie di strambissimi personaggi a cui vorrebbero avvicinarsi o con cui vorrebbero stringere delle relazioni.
“American Life”, insomma, è una specie di tragicommedia on the road in cui si sorride un po’ e ci si commuove anche – a seconda della situazione, ovvio. Senza dubbio ci si mette un attimo a familiarizzare con Burt e Verona, i due protagonisti. O almeno io li ho amati sin dalle prime battute del film. Lui (John Krasinski) è buffissimo: un uomo molto alto, magro e barbuto, con i capelli sempre fuori posto, sbadato e fanfarone che spesso si comporta come un ragazzino. Lei (Maya Rudolph) è più saggia e pensierosa, un tantinello insicura, un’animo dolce e già materno, in un certo senso, ancor prima del parto – evento che peraltro nel film non viene narrato.
I genitori di lui, una coppia di cialtroni egoisti e finto-tonti, sono intepretati molto bene da Catherine O’Hara e Jeff Daniels.
A Maggie Gyllenhaal, invece, è stata affidata la parte di una mezza sciroccata che segue filosofie di vita simil-new age come ritenere l’uso dei passeggini dannoso per l’educazione dei figli, allattare al seno anche i bambini altrui, ecc.
Sam Mendes ha diretto una storia scritta e sceneggiata da Dave Eggers e da sua moglie Vendela Vida.
Nota per gli smemorati (come me). Sam Mendes è lo stesso regista di American Beauty”, “Era mio padre” e “Revolutionary Road”.
Voto: 6 e mezzo. Consigliato a chi non categorizza i film in lenti/non lenti.

La scheda di IMDb.com, quella di Cinematografo.it e quella di MyMovies.it.

Posted in: film / Tagged: Allison Janney, American Life, Away We Go, Bailey Harkins, Carmen Ejogo, cast, Catherine O'Hara, cinema, commedia, Conor Carroll, film, Jeff Daniels, Jim Gaffigan, John Krasinski, Josh Hamilton, pellicola, recensione, regia, regista, Sam Mendes, Samantha Pryor, scheda, USA

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